Per Flannery O’Connor la narrazione ha a che fare col mistero dell’uomo e fa appello a una educazione dello sguardo. Il problema è che il nostro occhio, spesso talmente abituato a vedere le cose sempre allo stesso modo, è atrofizzato, incapace di scoprirne la ricchezza profonda e misteriosa. Leggere le pagine di Flannery compie il prodigio, e lì dove prima vedevi nero, adesso sei in grado di vedere i colori e le forme di un mondo che neanche immaginavi. Detto in altri termini, forse più consoni, Flannery è convinta che lei in quanto scrittrice è chiamata ad avere una visione «anagogica» della realtà capace di accorgersi che in un’immagine o in una situazione c’è una densità di mistero che richiede una «prospettiva ampliata della scena umana». Ma anche più attenta: «più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedrete dentro», ha scritto. Nello sguardo di chi scrive deve esserci «un granello di stupidità», che lo conduca a rimanere come «imbambolato» (usa il verbo to stare). E’ proprio così che prende corpo un profondo senso dell’ascolto, del rispetto e dell’obbedienza nei confronti della realtà e del mistero della nostra posizione sulla terra. In questo senso leggere la O’Connor ha una rilevanza educativa: insegna a vedere meglio la realtà.