Nelle prossime settimane [il 2 marzo] uscirà in Italia una raccolta di testi inediti di Flannery O’Connor, “Il volto incompiuto”, edito dalla Rizzoli-Bur, che colma uno spazio lasciato vuoto da troppo tempo. Anche nel nostro Paese lentamente ma progressivamente ci si sta rendendo conto dell’importanza di questa scrittrice morta oltre quarant’anni fa. Flannery O’Connor (1925-1964) era una giovane donna cattolica della Georgia, quel «caro vecchio lurido Sud» che aveva dato i natali ad altri scrittori del calibro di Truman Capote, Tennesse Williams e William Faulkner.
Quando si dice che uno scrittore è “di culto” o “di nicchia”, in genere si vuole dire che si tratta di uno scrittore che è di culto per una nicchia di pochi pazzi fanatici e per lungo tempo questo discorso si poteva applicare anche alla O’Connor, anche se è interessante leggere i nomi di alcuni di questi “pazzi”: da scrittori e poeti come Raymond Carver ed Elizabeth Bishop a musicisti e rockstar come Bruce Springsteen e Nick Cave, fino a registi così diversi tra loro come John Huston e Quentin Tarantino, e poi, per passare all’Italia, da poeti come Attilio Bertolucci e Davide Rondoni fino a romanzieri come Luca Doninelli e Carola Susani e critici acuti, sobri e severi come Antonio Spadaro.
È proprio di padre Spadaro la cura del volume inedito della O’Connor, tradotto da Elena Buia Rutt, autrice lo scorso anno del primo vero e proprio lungo saggio critico sulla scrittrice americana “Flannery O’Connor, il mistero e la scrittura” (edizioni Ancora). Insomma, una bella carovana di persone tra loro molto distanti, collegati forse da quest’unico punto in comune: l’essere stati “folgorati” dalla lettura della O’Connor.
E pensare che la produzione narrativa di questa donna morta a soli 39 anni è alquanto modesta: due romanzi (“Wise Blood”, del 1952 e “The Violent Bear It Away” del 1960, tradotti in italiano rispettivamente da Garzanti e Einaudi) e una manciata di racconti pubblicati in due tappe nel 1955 e nel 1965; a queste due prove narrative vanno aggiunte le pagine di saggistica e di corrispondenza epistolare già in parte offerte al lettore italiano nell’edizione di Minimum Fax di “Nel territorio del diavolo” e, per le lettere, di “Sola a presidiare la fortezza” (Einaudi), entrambe edizioni parziali di un patrimonio ricchissimo e davvero folgorante che ora sarà ricostruito in maniera integrale dalla pubblicazione de “Il volto incompiuto”.
La O’Connor ha scritto poco ma con una chiarezza e una profondità rare nel panorama della letteratura contemporanea; si definisce una “tomista zoticona” e come l’Aquinate dimostra una grande fiducia nella realtà che vede, osserva, contempla, se necessario anche con “un pizzico di stupidità” (dove stupidità fa rima con stupore). Come ha sottolineato padre Spadaro «La scrittrice ha una visione del reale, dunque niente labirinti coscienziali o incartamenti romantici. I materiali di cui è fatto un racconto sono i più “polverosi”: “La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa”».
Fiducia nella realtà vuol dire da una parte la massima concretezza, dall’altra anche che la realtà è “incompiuta”, per cui la visione che bisogna avere è di tipo “anagogico”, capace cioè di accorgersi che la realtà apre orizzonti e rinvia a sentieri ulteriori che rivelano una densità di mistero che richiede quindi una “prospettiva ampliata della scena umana”.
Quindi concretezza, perché con i concetti astratti non si fanno storie ma con la fisicità e la materia (anche per la O’Connor come per Romano Guardini il cattolicesimo è la religione più materialista di tutte). Anche in questa difesa dei sensi e del senso del reale s’intravede il “tomismo” di questa scrittrice “campagnola”: «la caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella d’affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose».
Solo attraversando la materia, la polvere, delle storie umane (storie spesso crude, assurde, grottesche, violente), si può intravedere e imbattersi nel mistero: la prospettiva della O’Connor è anagogica, passa attraverso la realtà per condurre al «mistero della nostra posizione sulla terra», come scrive nel saggio “Nei territori del diavolo”. Il titolo di questo straordinario saggio (consigliato a chiunque decidersi a scrivere) è emblematico, perché per la O’Connor l’argomento della narrativa è «l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». Insomma, forse è per questo suo essere così esigente (da richiedere l’attenzione a lettori coraggiosi) che questa scrittrice è ancora di nicchia, speriamo ancora per poco.
Interessante. Ho scoperto la O’Connor anni fa (forse allora erano meno di ora i suoi estimatori). Qualche giorno fa ho acquistato “Nel territorio del diavolo”, e oggi ho scoperto questo blog. E un nuovo libro su questa scrittrice. Mi toccherà acquistare anche questo!
“E pensare che la produzione narrativa di questa donna morta a soli 39 anni è alquanto modesta: due romanzi (“Wise Blood”, del 1952 e “The Violent Bear It Away” del 1960, tradotti in italiano rispettivamente da Garzanti e Einaudi) e una manciata di racconti pubblicati in due tappe nel 1955 e nel 1965.”
Con il vostro permesso vorrei precisare che i due romanzi citati non sono stati tradotti in italiano rispettivamente da Garzanti e Einaudi, bensì da Marcella Bonsanti, “La saggezza nel sangue”, e da Ida Omboni, “Il cielo è dei violenti”. Garzanti e Einaudi hanno pubblicato le traduzioni di queste opere della O’Connor.
“Tutti i racconti”, tradotti da Marisa Caramella e Ida Omboni, pubblicati dalla Bompiani.
Si dice spesso che i traduttori siano invisibili, ma hanno nome e cognome e meritano di essere citati.