di Antonio Giuliano @ La Bussola quotidiana, 01-03-2011
Ci vuole occhio per essere scrittori. E la narratrice statunitense Flannery O’Connor (1925-1964) non ha mai nascosto la sua prospettiva: «Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica». E anzi: «Proprio perché sono cattolica non posso permettermi di esser meno di un’artista». Una rivendicazione orgogliosa, così stridente con una certa cultura dominante, al punto da sospettarne la censura. Come dimostra una raccolta di saggi ancora stranamente inediti che esce il 2 marzo da Rizzoli Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mistero di scrivere (Rizzoli, pp. 180, euro 9). Scritti giudicati mai degni di pubblicazione ora presentati per la prima volta dal gesuita Antonio Spadaro, critico letterario de La Civiltà Cattolica, folgorato dall’autrice statunitense di cui da anni è impegnato a farne conoscere l’opera, ora anche attraverso un sito (www.flanneryoconnor.it). Stroncata dal lupus, a Flannery O’Connor bastarono 39 anni per diventare una scrittrice di culto grazie a ventisette racconti e due romanzi: “La saggezza nel sangue” e “Il cielo è dei violenti” in cui spiccano trame forti e scioccanti, e personaggi tragicomici. Non è un caso, ci dice Spadaro, che registi pulp come Quentin Tarantino o i grandi del rock abbiano tratto ispirazione dalle sue opere.
Perché Flannery O’Connor sente il bisogno di manifestare chiaramente la sua fede?
È la sua visione del mondo. Flannery non è né bigotta né intellettuale o interleckchul (intellettualoide) come diceva lei. La sua fede certamente illumina la sua ispirazione artistica, lei stesso scrive: «Credo che se non fossi cattolica, non avrei ragione di scrivere, nessuna ragione di vedere, nessuna ragione di provare orrore, o di provare piacere in nulla. Sono nata cattolica, ho frequentato scuole cattoliche durante l’infanzia, e non ho mai lasciato, né ho mai voluto lasciare la Chiesa. Non ho mai percepito l’essere cattolica come un limite alla libertà dello scrittore, piuttosto l’opposto». Per lei la fede è vedere le cose: la fede è una sorta di motorino di avviamento della percezione e, quindi, della scrittura: «La fede, nel mio caso almeno, è il motore che aziona la percezione». Chi ha fede ha l’occhio giusto per essere scrittore. «Per lo scrittore di narrativa, non credere in niente equivale a non vedere niente». E così le si amplia il campo visivo su un mondo che Flannery ha definito come Christ-haunted, cioè “infestato da Cristo”.
Un cattolicesimo, quello della scrittrice, che lei nella prefazione definisce hardcore (duro), in cui la fede sembra diventare una sorta di lente di ingrandimento…
Sì secondo lei «gli scrittori che vedono alla luce della loro fede cristiana saranno, di questi tempi, i più fini osservatori del grottesco, del perverso e dell’inaccettabile» perché «non vi sarà niente nella vita di troppo grottesco, o troppo “non cattolico”, da non poter fornire materiale». La O’Connor è particolarmente sensibile agli aspetti più drammatici e paradossali dell’incisività della grazia, che può arrivare fino all’abbrutimento del personaggio. Anzi, l’irruzione della grazia non sempre migliora la vita personale e sociale dei personaggi e, nel suo caso, è proprio esattamente il contrario. La sua narrativa allora non potrà che risultare “selvaggia”, insieme violenta e comica, per via delle discrepanze che cerca di ricomporre
Una scrittura che comunque colpisce per la concretezza, per una dura realtà…
Per Flannery «l’universo visibile è un riflesso di quello invisibile». Dio è un dato dell’esperienza non un’intuizione della mente. La scrittrice dà alla dimensione spirituale una consistenza materiale o “sacramentale”. Quando una sua collega scrittrice le diceva di considerare l’Eucarestia solamente come un simbolo, la sua risposta fu netta: «Beh, se è un simbolo, che vada al diavolo» (“Well, if it’s a symbol, to hell with it”). E aggiungeva: «Non sono scrittrice dell’impercettibile, io».
Nella scelta dei protagonisti delle sue trame sembra esserci una preferenza per personaggi del Vangelo, come storpi, ciechi…
Il suo modello è la Bibbia. Non si fanno storie senza una storia di riferimento e la Bibbia fornisce una storia nella quale «chiunque possa riconoscere la mano di Dio e la sua discesa». E infatti per Flannery la nostra reazione della vita sarà diversa se «ci hanno inoculato soltanto una definizione della fede o se abbiamo tremato insieme ad Abramo che levava il coltello su Isacco». Ma lei stessa lamentava che la Bibbia «non ha fatto breccia nel profondo della nostra coscienza» e la cultura ha eliminato il mistero. La scrittrice attacca non tanto gli atei, quanto coloro che ammettono l’esistenza di un essere divino che non ha niente a che fare con la storia.
Non solo per la rivendicazione della fede: mi pare raggiunga vette di anticonformismo nel panorama culturale (anche di quello cattolico) parlando spesso di diavolo. Secondo la scrittrice per fare la prova dell’esistenza di Satana basta provare a resistere a una qualsiasi tentazione per cinque minuti….
Flannery dice di essere interessata all’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo. La scrittrice riconosce che il lettore troverà che il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace. Il senso del male è garanzia del nostro senso del mistero e dunque il diavolo diventa, in qualche modo, una necessità drammatica dello scrittore. Più anticonformista di così…
Perché anche critici nostrani come Fernanda Pivano, l’hanno ignorata?
Non solo lei. Flannery è scomoda per tutti. Imbarazzante. Nelle opere della O’Connor i personaggi sono sempre e in ogni momento tutti allineati al principio di tutte le loro possibilità. Così la salvezza può venire da un assassino e, invece, un cieco egoismo può essere l’espressione tipica di un filantropo umanista. Ogni ideologia esplode, e così ogni prevedibilità. E poi la O’Connor è sempre stata defilata rispetto al mondo delle mode.
Perché alcuni grandi del rock le sono debitori?
Nick Cave come la O’Connor assume dalla Bibbia, e in particolare dall’Antico Testamento immagini e linguaggio. Cave trova nella tough prose, la prosa dura del Vecchio Testamento una lingua perfetta, allo stesso tempo misteriosa e familiare. Il mondo dei personaggi di Springsteen è un mondo cupo: se per la O’Connor la grazia agisce in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo, così anche per Springsteen: ogni forma di grazia possibile si trova soltanto in badlands (bassifondi) e darkness (oscurità), per usare due delle tante metafore possibili. La luce brilla solamente se ci sono tenebre. Ma l’eredita “oconnoriana”, in realtà, è più estesa e dunque si dovrebbe prendere in considerazione, ad esempio, almeno In God’s Country e l’intero album The Joshua Three degli U2, il disco Murmur dei R.E.M., Blood Money di Tom Waits.
Parliamo di una donna che nonostante la propria malattia non ha mai imputato a Dio la sofferenza, nè l’inspiegabilità del male.
La sua è una visione radicalmente escatologica. Vede il mondo under construction, in costruzione, non finito, e così tiene il suo sguardo lasciando intatto il senso del mistero. Non si accontenta della tenerezza: vuole andare oltre, avere una visione del significato del male, e comprende che a volte l’eccessiva tenerezza distrae l’occhio e lo rammollisce. Scrive testualmente: «Una tenerezza staccata dalla persona di Cristo è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas». Il rischio è la trasformazione della carità in idea, o meglio, in ideologia del bene per l’umanità. La carità che non sa accettare l’incompletezza della condizione umana, e non solo la debolezza, rischia di rimanere cieca. Da qui deriva l’utopia di un uomo e di un mondo perfetto e ideale, in cui non c’è più dolore e male: non a caso in nome della realizzazione di paradisi in terra, sono stati commessi delitti atroci nella storia.
Per questo rifugge anche nei suoi scritti da un certo sentimentalismo?
Lei mostra non una generica attitudine alla tenerezza, ma un occhio profetico capace di vedere anche nel dramma la traccia di un destino. L’occhio deve vedere che il suo orizzonte finito non offre spiegazioni plausibili. Non cerca risposte dinanzi al male. Non fa neanche alcun rinvio alla responsabilità dell’uomo come alibi per “assolvere” Dio e per aiutare l’uomo ad essere più moralmente vigile. Parte dal fatto che il poeta è cieco per tradizione, ma il poeta cristiano è come il cieco toccato da Cristo, che guardò e vide uomini come fossero alberi. È una visione distorta, ma è quella che interessa a Flannery: descrivere gli uomini come alberi che camminano. Ciò che queste “strane visioni”, come lei le definisce, fanno saltare subito per aria è il “buon senso” vagamente laico, razionale e illuministico che tanto ammorba la vera ispirazione artistica.
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