La schiena di Parker: il tatuaggio e il “sangue saggio”



 
di Elena Buia Rutt

Iniziato nel 1960, La schiena di Parker ha avuto una gestazione molto lunga. Cinque anni dopo, nei suoi ultimi mesi di vita, Flannery O’Connor, continuava a ritoccare quel racconto che, più di ogni altro, ha al suo centro, in modo inequivocabile, diretto e violento, il tema dell’Incarnazione. Tutto ha inizio quando Parker, un ragazzotto «massiccio, leale, ordinario come una pagnotta», a una fiera di paese, vede un uomo coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi. Finché non aveva visto l’uomo della fiera, non gli era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa di straordinario, nel fatto di esistere. E non gli venne in mente neanche allora, però un singolare disagio mise radici dentro di lui. Era come un ragazzo cieco, girato con tanta delicatezza da non accorgersi che la sua destinazione era cambiata

A scuotere Parker dal suo abituale torpore esistenziale è il casuale incontro con l’uomo tatuato, la cui entrata in scena dà l’avvio a un’evoluzione spirituale a tappe serrate che travolgerà il giovane suo malgrado, finendo col gettarlo “ai piedi della croce”. Nel tatuaggio, segno-sigillo impresso nella carne, Parker intuisce inaspettatamente un elemento di rottura, un rimando ad una dimensione altra, extra-ordinaria. Una dimensione prima di allora sconosciuta e solo ora percepita a tentoni: una conoscenza che ha a che fare con lo stupore e con la meraviglia provati dal fatto dell’essere al mondo. L’intuizione, insomma, di una trascendenza di cui carne e corpo sono il veicolo.

Dopo l’incontro con l’uomo della fiera, si insinua inoltre in Parker un disagio strisciante, persistente; un malessere che il giovane si limita a percepire confusamente, incapace di portarlo a livello di coscienza. In una narrativa anti-intellettualistica come quella oconnoriana, così lontana dalle secche del pensiero autoreferenziale, al corpo e all’azione è affidato il riscatto di Parker. Questi inizia a riempirsi di tatuaggi dalla testa ai piedi, ma i disegni, anziché un intricato arabesco di colori, somigliano più a «una serie di chiazze sparse a caso»; il rimedio non risolve: manca il principio guida, il senso e lo scopo.

Nel frattempo Parker, che sempre aveva avuto successo con le donne, senza sapere perché, si ritrova a sposare la brutta e bigotta Sarah Ruth, che, a differenza delle altre, sembra disprezzarlo e non si stanca i definire i tatuaggi «vanità delle vanità». Ancora una volta il giovane si ritrova in balia di qualcosa di esterno, una sorta di meccanismo incontrollabile che lo muove verso scelte estreme, apparentemente prive di coerenti motivazioni. Parker si dimena come può, ma si ostina a rimanere cieco. Il giovane, come i personaggi-tipo di Flannery O’Connor, percepisce la trascendenza, ma a questa, più o meno consciamente, resiste con tutte le sue forze. Ma la grazia di Dio “non demorde” e si manifesta con azioni concrete e destabilizzanti, a dimostrare che, solo tramite un codice violento, è possibile condurre l’uomo dinanzi alla vertigine della propria libertà: «Messi di fronte agli interventi della grazia soprannaturale [i personaggi di Flannery O’Connor] reagiscono con una violenza inaspettata, con un moto di rifiuto (lo stesso che ha di solito il lettore davanti alla loro storia), per poi cedere e abbandonarsi al fascino della divinità, un fascino che invece di soggiogare e ridurre all’impotenza, è fonte di consapevolezza, dolore e vita».

L’umanità messa in scena dalla scrittrice georgiana, nella sua paradossale e ossessiva ricerca di Dio, è esposta ad un orizzonte smisurato e imprevedibile; si sperimenta come possibilità infinita, come domanda temuta, ma reale e inevitabile sulla trascendenza: «Dio si imprime nell’uomo come bisogno, desiderio. Dio è lo Streben dell’uomo, è il suo spasmodico tendere». Il familiare e il quotidiano non la proteggono dalla trascendenza con cui è impastata: quell’infinità inquietante la trascina e la condanna, volente o nolente, a fare i conti con il mistero.

Esasperato dal matrimonio che va a rotoli, deciso a conquistare a tutti i costi la moglie, Parker combina guai sul lavoro: anche questa volta il colpo che riceve è fisico, concreto, reale. Per poco non rimane bruciato dall’incendio di un albero secolare, da lui provocato a causa di un incidente con il trattore: stordito e lacero, il giovane fugge e barcolla verso il suo ultimo e decisivo tatuaggio. Mentre nel negozio del tatuatore sfoglia il catalogo dei vari disegni a soggetto religioso, il suo guardo viene catturato da quello di un Cristo bizantino. Continuò a sfogliare, finchè arrivò quasi all’inizio del libro. Da una pagina, un paio di occhi gli lanciarono un rapido sguardo. Parker proseguì` svelto, poi si fermò. Pareva che gli avessero staccato la corrente dal cuore. Il silenzio era assoluto. Davanti a lui, la testa di un Cristo bizantino dagli occhi divoranti.

Lo sguardo del Cristo si insinua prepotentemente nell’anima di Parker, che si fa tatuare quel volto sulla schiena, nella più certa convinzione di conquistare a questo punto Sarah Ruth. L’incontro con il divino, nella scrittura di Flannery O’Connor, avviene ancora una volta lontano da formule vuote a cui assentire o meno intellettualmente; inaspettato e violento, si rivela invece nella materia, si imprime nella carne Dio non e’ un’entità vaga e generica, ma ha i tratti dell’uomo, è un Dio incarnato, fatto dunque di carne e di sangue. E il volto di Cristo impresso nella schiena di Parker è il volto reale di Cristo, capace veramente di guardare la persona, di guardare in fondo Parker stesso.

Ma l’inflessibile Sarah Ruth, alla vista del tatuaggio, inizia a colpire il marito con la scopa, accusandolo di idolatria. La donna, nascondendo dietro sì tanto pio zelo una fede poco coraggiosa, rappresenta quella separazione tra corpo e anima, natura e grazia, tanto biasimata dalla O’Connor. Nell’ultima lettera ad “A.”, scritta in ospedale, a pochi giorni dalla morte, Flannery, parlando di Parker e della moglie, chiarisce da che parte sta.

“No, Caroline non si riferiva ai tatuaggi [in La schiena di Parker] parlando di eresia. E’ Sarah Ruth l’eretica, l’idea che puoi adorare un puro spirito. Per Sarah Ruth, Dio non ha volto. La donna non concepisce il mistero dell’Incarnazione, come forma di presenza e relazione personale dal carattere rivelatorio e salvifico. Il suo Cristo è il maestro di morale, bontà e virtù; verità concettuale, in cui la fibra umana è assente e la carne si è volatilizzata nell’ombra diafana dell’idea. Per la moglie di Parker, il gesto del marito è idolatria. Eppure, «Solo un Dio con sangue umano si rende conoscibile, solo di un Dio siffatto possiamo dire “chi è”, e non soltanto “chi non è”». Il Cristo uomo si mostra alla sua creatura: «Il bellissimo racconto Parker’s Back rappresenta la grande battaglia tra un Dio che ha assunto il volto e ama i volti umani (quello del peccatore Parker) e un Dio senza volto che disdegna i volti umani (quello della pura – e brutta – moglie di Parker». Un semplice dal “sangue saggio” come Parker dà il suo assenso a un Cristo che può riconosce in quanto «la presenza corporea è il fondamento della salvezza»: La moglie, «fautrice di un Dio brutto ma puro e non contaminato dal sangue e dalla polvere», rifuggendo dall’Uomo-Dio, dal Cristo dei trentatré anni, sconfina nel docetismo, vaporizza l’umanità di Gesù e il mistero dell’Incarnazione. La storia di Parker è un cammino spirituale che, attraverso successive evoluzioni, lo conduce alla salvezza in Cristo: «By the end of the story the indelible tattoo symbolize a transformation in Parker’s very being. He is now tha “Christ-bearer”, literally “Christopher”, bearing Christ’s presence in the world». Il sangue saggio di Parker decifra la presenza vivente di Gesù come un essere-in-relazione rivelatore e salvifico: senza indugi vi si abbandona, risponde alla sua presenza.

Il giovane, con il suo tatuaggio, testimonia un incontro reale e irreversibile: incarna Cristo, litteralizzando su di sé le stimmate dell’immagine del Dio fatto uomo. Parker si fa Dio: l’immagine del volto di Gesù, la veronica sulla sua schiena, ben rappresenta questo desiderio di somiglianza. Il tatuaggio è un gesto ingenuo, capace però di palesare un dono interiore; un atto mistico, nel tentativo di pervenire all’identificazione totale in Cristo, raggiunta facendosi come Lui, impersonandolo, litteralizzandolo su di sé. A immagine e somiglianza con Dio, tramite il linguaggio immodesto, ma sincero del corpo. Il tatuaggio diviene quindi una sorta di scrittura pittografica, un alfabeto come disegno; la metafora più vicina per l’incarnazione di una scrittura di Cristo.

A questo suo ultimo racconto Flannery O’Connor, alter-ego di Parker, ha affidato la testimonianza appassionata di una cristologia della presenza: la sua scrittura è il tatuaggio, la stimmata, tramite cui testimoniare il Dio vivente ricevuto in dono. Scrivere vuol dire liberare il proprio sangue saggio, rendere Cristo conoscibile attraverso i sensi, incarnarlo nella parola. Uno stile concreto e realista rende carne e sangue un’imperscrutabile verità della fede, di solito affrontata dal concetto o dalla devozione. Flannery O’Connor era consapevole del fatto che le tipologie dei suoi personaggi potessero essere considerate «perverse per la mentalità borghese»: «non mi fido delle formule pie, soprattutto quando escono dalla mia bocca», affermava tuttavia, rifuggendo da una religiosità di maniera, consolatoria e indulgente. «I suoi racconti scioccano il lettore afflitto da una fede che ha il gusto dello svenevole, disorientano chi si attende storie edificanti». Il conformismo, religioso o meno, era ed è il principale deterrente per la comprensione di questa narrativa. La mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente sempre disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contatto con il mistero.

1 thoughts on “La schiena di Parker: il tatuaggio e il “sangue saggio”

  1. Confesso la mia ignoranza: non conoscevo, fino a qualche ora fa, il nome e il volto di Flannery O’Connor, o, almeno, non ricordo di averne mai sentito citazione.
    Quanto ho letto ha suscitato in me una grande curiosità, un desiderio di “fare amicizia” con una donna che mi appare forte, coraggiosa, acuta, sensibile. E voglio cominciare dalla lettura di “La schiena di Parker”.
    Spero di incontrarvi ancora su questo blog

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