Nel 1978 esce Darkness On The Edge Of Town, il quarto disco di Springsteen. Il primo era apparso nel gennaio del ’73, Greetings From Asbury Park, N.J. Con Born To Run, uscito nel 1975, Springsteen aveva assaporato la realizzazione del suo sogno di successo, ma ecco che si accorge di non voler viverci dentro in quanto esso è soltanto «un’illusione di salvezza». E quindi la domanda: «Dov’è che sta bene l’uomo con la sua chitarra? Qual è il mio posto nel mondo?». La domanda apre scenari cupi e sequenze notturne in bianco e nero dai forti contrasti. L’obiettivo non è puntato sulla fuga, ma sulle difficoltà del percorso. Le frasi sono più sobrie e meno complesse rispetto a quelle del disco precedente e generano sintetiche pennellate. Il linguaggio della fede diventa strumento per dire l’esperienza umana. In Adam Raised A Cain – ispirata al romanzo East of Eden di Steinbeck – Springsteen canta il suo rapporto con il padre parlando di un peccato ereditato e del venire al mondo pagando/ per i peccati del passato di qualcun altro.
La poetica di Sprinsteen suona in consonanza con quella della O’Connor. Jon Landau, recensore della rivista Rolling Stone e poi suo manager, gli aveva consigliato di leggere le opere della scrittrice. Fu per lui una «grande, grande rivelazione». Questa lettura maturata alla soglia dei 30 anni produsse un notevole effetto. Springsteen si appassionò al racconto A Good Man Is Hard To Find, tanto che scrisse una canzone con lo stesso titolo. E si appassionò anche del romanzo Wise Blood, oltre poi che della versione cinematografica realizzata da John Huston nel 1979. Proprio Hazel Motes, il protagonista di questo romanzo, afferma che «nessuno ha bisogno di giustificazioni se va in giro con una buona macchina». Questa frase potrebbe essere messa sulla bocca dei personaggi delle canzoni di Springsteen: tutti sono, infatti, realmente o metaforicamente, lanciati su una strada, su una macchina che è luogo di giustificazione, di assoluzione, di redenzione. Il mondo dei personaggi del Boss è un mondo cupo: se per la O’Connor la grazia agisce «in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo», così anche per Springsteen: ogni forma di grazia possibile si trova soltanto in badlands (bassifondi) e darkness (oscurità), per usare due delle tante metafore possibili. La luce brilla solamente se ci sono tenebre. Darkness On The Edge Of Town lascia l’uomo inchiodato alla propria condizione radicale, il peccato, ma la tensione, seppure orizzontale, è verso una redenzione: correremo/ fino al mare/ E laveremo questi peccati dalle nostre mani (Racing in the street). Sono un uomo – afferma ancora in The Promised Land – e credo in una terra promessa.
Nel 1982, quando sul mercato dominano videomusica ed elaborazioni postmoderne e frizzanti, Springsteen esce con l’album Nebraska, che fu definito «risolutamente e provocatoriamente fuori moda» per il «cantato monotono e semplice, la musica essenziale, lenta e disadorna». Scrive Springsteen: «A casa, proprio prima di registrare Nebraska, lessi Flannery O’Connor. Le sue storie mi facevano pensare all’inconoscibilità di Dio e suggerivano una spiritualità tenebrosa che, a quel tempo, trovava risonanza con i miei stessi sentimenti». Le canzoni sono presentate nella forma acustica provvisoria senza arrangiamento elettrico. In scenari sbiaditi vengono messi a fuoco i fallimenti umani: «La chitarra acustica, strapazzata come nei peggiori salotti folk, trova solo nell’armonica e in qualche sporadico tappeto di tastiere le compagne con cui sostenere parole sempre amare e pesanti». Nebraska, ha affermato Springsteen, «contiene l’atmosfera della mia gioventù, così come la sentivo, da quando ero un bambino a quando ero adolescente».
A partire da questa esperienza, sviluppa in termini simbolici un’implicita poetica del peccato, che egli accetta più facilmente della promessa del paradiso. La canzone My Father’s House dice il ritorno di un figlio alla casa del padre e il modello implicito è quello del figlio prodigo. Ma la conclusione è amara: il padre si è trasferito o non c’è più e la casa resta fredda e isolata/ Splendendo al di là di questa scura autostrada dove i nostri peccati/ giacciono non espiati. Il Boss sembra escludere un intervento dall’alto, perché l’unica direzione possibile è quella orizzontale, della strada: l’unico perimetro in cui all’uomo è dato vivere. Dopo tragedie della follia, immagini di vuoto, desolazione, galera ed esecuzioni, l’ultima preghiera è un urlo secco e acuto: liberami dal nulla (State Trooper). Tuttavia Nebraska riesce a distillare anche parole di compassione (cfr Highway Patrolman) e speranza, come quelle che albergano nelle lunghe strofe di Reason To Believe. Alla fine, nonostante le tragedie quotidiane, c’è sempre quella cieca, incomprensibile speranza che porta i personaggi a credere che alla fine/ di ogni giorno guadagnato duramente/ la gente trova qualche/ ragione in cui credere. Con la stessa paradossalità di Flannery.
Forse è un po’ fuori tema. Ma la canzone “Born in the U.S.A.” fu scritta nelle sessioni di “Nebraska”, e poi scartata. Ma c’è quel verso: “Nessun posto dove correre, non ho un posto dove andare” che richiama il figlio dell’Uomo che non ha dove posare il capo. Un eco delle letture della O’Connor, ancora…
Mi enhorabuena por el blog. Yo también tengo uno en español.
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Bellissimo articolo, caro padre.
Lei è uno dei pochi anzi pochissimi sacerdoti che sa parlare di Bruce con competenza e senza tirarlo per la giacchetta.
Inoltre, la relazione tra Springsteen e la grande O’ Connor è indiscutibile, ma lei ha saputo dimostrarla limpidamente.
Sto scrivendo (per quello che vale) un saggio sui complessi e contraddittori rapporti che secondo me esistono tra sogno, rock, letteratura ed alimentazione e mi sono imbattuto con gioia nel suo articolo, che citerò senz’ altro.
Buona giornata e grazie
Riccardo Uccheddu
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