Per Flannery O’Connor scrivere è come fare a cazzotti

di Andrea Monda (da L’Osservatore Romano, 22 maggio 2011)

Il 20 maggio si è svolto a Roma un incontro dedicato a Flannery O’Connor in occasione della pubblicazione di una raccolta di suoi testi inediti in italiano. Il libro — Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere (Milano, Rizzoli, 2011, pagine 180, euro 9,50) — è stato curato da Antonio Spadaro, le traduzioni da Andrew ed Elena Buia Rutt.

È in libreria Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere, che raccoglie alcuni testi, tutti inediti in italiano, di Flannery O’Connor, scrittrice scomparsa nel 1964 ma la cui eredità continua ancora a crescere fuori e dentro gli Stati Uniti. Un’influenza non solo culturale o, peggio, «letteraria», ma appunto anche spirituale, come questo volume mette bene in evidenza, raccogliendo testi che, stranamente, erano stati espunti e accantonati dalle precedenti edizioni dei saggi «sul mestiere di scrivere» di Flannery O’Connor. Il volto incompiuto, sembrerebbe un gioco di parole, di fatto però realizza il doveroso compito di colmare un vuoto che da troppo tempo era rimasto tale: il volto della scrittrice per il lettore italiano ora è più chiaro, «compiuto».

Da questo punto di vista è illuminante la lunga prefazione di Antonio Spadaro (realizzatore del recentissimo blog http://www.flanneryoconnor.it) che in quaranta pagine stila una vera e propria mappa geografica per orientarsi in un mondo che è poco vasto, come estensione (due romanzi, ventisette racconti, alcuni saggi e molte lettere), ma abissale per profondità. Il luogo comune che leggere un libro può cambiare la vita è vero, in special modo per un’autrice spiazzante e vertiginosa come Flannery O’Connor, morta a soli 39 anni a causa di una dura malattia (lupus eritematosus), «madre» di tanti e diversi figli a cui ha cambiato, folgorandoli, il percorso artistico: da poeti come Elizabeth Bishop e Attilio Bertolucci (è proprio lui che si definisce «folgorato»), narratori come Raymond Carver e Tim Winton, registi come John Huston e Quentin Tarantino, rockstar come Nick Cave e Bruce Springsteen.

La cattolica Flannery O’Connor canta la «carenza», l’incompiutezza dell’esistenza, però la mappa realizzata da Spadaro è, al contrario, accurata e completa e si articola attraverso alcune tappe che toccano i punti nodali della poetica o’connoriana: la ruvida concretezza delle vicende narrate; l’apertura al mistero attraverso storie incarnate piene di materia e di attenzione al dettaglio; la presenza di atmosfere grottesche, violente, imprevedibili; la narrazione come esposizione del dramma della libertà; l’importanza della visione e dell’occhio profetico necessario allo scrittore (e al lettore). Impossibile qui ripercorrerle tutte, ma colpisce la cura con cui il curatore si sia soffermato sul tema della concretezza intesa come virtù necessaria per ogni scrittore.

Per Flannery O’Connor scrivere è un po’ come fare un incontro di boxe: in una conferenza tenuta alcuni mesi prima della morte afferma che lo scrittore deve lottare «come Giacobbe con l’angelo (…). La stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale». Osserva Spadaro: «Leggere la O’Connor significa entrare nel ring delle sue pagine. Da dove nascono le sue storie? Che cosa le rende così intense? La sua scrittura è molto legata al reale, mentre è del tutto disinteressata ai labirinti della psicologia» e cita una famosa affermazione della scrittrice: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa».

Non è un caso che la O’Connor apprezzasse un romanziere come Graham Greene che nei suoi Saggi cattolici sostiene che «La letteratura non ha niente a che fare con l’edificazione spirituale. Con ciò non voglio affermare che la letteratura sia amorale, ma che ha una sua morale propria (…). I romanzieri cattolici (ma preferirei chiamarli romanzieri che sono anche cattolici) dovrebbero scegliere a loro patrono il cardinale Newman. Nessuno intese meglio di lui i loro problemi e li seppe più abilmente difendere dagli attacchi dei bigotti. (…) Newman [che così] difende l’insegnamento della letteratura nelle università cattoliche: “Se la poesia deve servire allo studio della natura umana, non si pretenda una letteratura cristiana. È un controsenso, infatti, voler ritrarre un’umanità peccatrice in una letteratura scevra di peccato. Si può forse mettere insieme qualcosa di molto grande e sublime, più sublime di quanto sia mai stata la poesia: ma se la si esamina ben bene ci si accorgerà che poesia non lo è affatto”».

Tutto questo vale a fortiori per Flannery O’Connor. La scandalosa ruvidezza delle storie, dei colpi di scena e dei personaggi che la narratrice crea con una scrittura fresca, colorata, quasi pittorica, è associata appunto alla concretezza, massima «virtù» per questa donna del sud degli Stati Uniti che si definisce scrittrice non «benché» ma «in quanto» cattolica. E concretezza vuol dire essenzialmente niente idee, astrazioni o sentimentalismo, non emozione bensì azione. scrittrice scomparsa nel 1964 ma la cui eredità conti.

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