Piccola antologia o’connoriana (brevemente commentata)

Ecco brevi appunti di lettura di vari testi di Flannery O’Connor con ampie citazioni (in grassetto). Sono note sparse organizzate però per argomento: 1) Non serve a niente rivelarsi 2) Che cosa sono le storie? 3) Al di là di un puro naturalismo 4) La contemplazione dell’esistenza 5) Il mistero del mondo 6) L’occhio 7) La necessaria «visione» dello scrittore 8) I livelli di visione.

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1) Non serve a niente rivelarsi

«Un racconto dove mi rivelo completamente sarà un pessimo racconto»[1].

Alla O’Connor interessa poco la motivazione dello scrittore, l’interesse del lettore, la natura espressiva della scrittura.

«[…] il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia»[2]

«La narrativa opera attraverso i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliono per convincere attraverso i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quel che il narratore si limita riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella d’affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose. Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore»[3].

La concretezza è una delle basi forti della poetica della O’Connor. Personaggi e avvenimenti hanno un aspetto che colpisce la percezione, sono incarnati e materiali:, mentre spesso si crede che siano le emozioni tumultuose o le idee grandiose a fare un racconto. Nient’affatto. Con i concetti astratti non si fanno storie.

Certi scrittori principianti, a giudizio della O’Connor, purtroppo sono consapevoli di problemi, di temi, di tutto quel che sa di sociologia, ma non di persone, dell’ordito dell’esistenza, di quei particolari di vita concreti che dànno realtà «al mistero della nostra posizione sulla terra»[4]. La sensibilità e l’acume psicologico sono poveri strumenti per scrivere di narrativa. È la materia e la concretezza della vita che danno realtà al mistero del nostro essere nel mondo. Di questo si alimenta la narrativa migliore.

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2) Che cosa sono le storie?

A lei interessano le storie. Cosa sono le storie?

«Chiamerò storia un testo narrativo di qualsiasi lunghezza, si tratti di un romanzo o di un’opera più breve, anzi la chiamerò storia ogniqualvolta personaggio e avvenimenti particolari si influenzino a vicenda formando una narrazione con un suo significato»[5].

Ecco che cosa interessa affermare alla O’Connor: la storia non è composta di «fatti», ma di «relazioni» e di persone. Dove non ci sono relazioni concrete tra personaggi e avvenimenti, non c’è storia e dunque non c’è racconto.

«La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa»[6].

«bisogna dar corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore»[7].

I materiali di cui è fatto un racconto o un romanzo possono essere i più «terrosi» e polverosi, i più umili. Scrivere narrativa non è questione di dire cose, ma di farle vedere al lettore, di mostrarle[8].

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3) Al di là di un puro naturalismo

«Seconde me è ora di cominciare a riflettere sulle storie a un livello molto più fondamentale, perciò voglio parlare di una caratteristica della narrativa che ritengo il suo minimo comune denominatore – il fatto che sia concreta – e di alcune caratteristiche che ne conseguono. Così facendo, ci occuperemo del lettore nel suo fondamentale senso umano, poiché la natura della narrativa è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato percettivo. La conoscenza umana ha inizio attraverso i sensi, e lo scrittore di narrativa inizia laddove inizia la percezione umana. Agisce attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle astrazioni. Ai più riesce molto meglio enunciare un’idea astratta anziché descrivere e quindi ricreare un oggetto che hanno davanti agli occhi. Ma il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia ed è proprio questo che gli scrittori di narrativa principianti sono così restii a creare. Il loro interesse precipuo va a idee ed emozioni disincarnate. Hanno la tendenza ad essere riformatori e a volere scrivere perché ossessionati non da una storia, ma dal nudo scheletro di qualche concetto astratto. Di problemi, non di persone consapevoli, di questioni e di temi, non dell’ordito dell’esistenza, di anamnesi, e di tutto quel che sa di sociologia, anziché di quei particolari di vita concreti che danno realtà al mistero della nostra posizione sulla terra».

Non si deve però confondere quest’atteggiamento con una sorta di crudo naturalismo, che sarebbe invece soltanto un vicolo cieco. Nel naturalismo puro e semplice, infatti, il dettaglio materiale e, diciamo così, «polveroso» sarebbe più connaturato alla vita che al romanzo: il romanzo semplicemente registrerebbe la vita. La prospettiva della O’Connor, invece, colloca il particolare e il dettaglio come connaturali all’opera, che è selettiva e punta non tanto a far la fotografia del reale, ma all’essenziale, al «mistero della nostra posizione sulla terra». Il romanzo non è mai una replica anastatica del mondo: ne è una interpretazione.

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4) La contemplazione dell’esistenza

«Oggigiorno si levano alti lamenti per il fatto che gli scrittori si siano tutti ritirati nei college e nelle università, dove vivono in modo decorso, invece di andare in giro a procurarsi informazioni di prima mano sulla vita. In realtà, chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia, possiede informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni. Se non riuscite a cavare qualcosa da un’esperienza ridotta, probabilmente non vi riuscirà da un’esperienza più vasta. Il dovere dello scrittore è contemplare l’esistenza, non dissolversi in essa»[9].

Il dovere dello scrittore è «[…] contemplare l’esperienza, non dissolversi in essa». Il realismo che la O’Connor intende prendere in considerazione è quindi orientato in direzione del mistero:

«[…] se lo scrittore crede che la nostra vita sia e rimarrà essenzialmente misteriosa, se ci considera come esseri all’interno di un ordine creato le cui leggi osserviamo liberamente, allora quello che vedrà in superficie lo interesserà solo in quanto passaggio per arrivare a un’esperienza del mistero stesso»[10].

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5) Il mistero del mondo

Il mondo non deve essere più visto in modo convenzionale: si è obbligati ad andare oltre. Il tipo di narrativa congeniale alla O’Connor dunque sarà l’esatto contrario del «buon senso» vagamente laico, razionale e illuministico. Sarà dunque eccentrico, spingerà sempre i propri limiti verso i limiti del mistero, sarà più interessato a ciò che appare incomprensibile o difficile da comprendere rispetto a ciò che invece è ben comprensibile.

Da questa «eccentricità» verso il mistero emerge anche la dimensione simbolica del dettaglio realistico. Nella narrazione lo scrittore usa spontaneamente simboli che operano anche in profondità, espandendo la storia in ogni direzione e dandole uno spessore ampio[11].

«La mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente sempre disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contatto con il mistero. La narrativa dovrebbe essere oculata e occulta. Per gran parte della critica popolare, vale l’opinione che la narrativa debba avere al centro l’Uomo Medio, e dipingere la comune vita media di tutti i giorni; mentre ogni scrittore di narrativa sarebbe tenuto a riprodurre quello che veniva chiamato “uno spaccato di vita”. Ma se fossimo soddisfatti della vita in quel senso, non avrebbe alcun senso produrre letteratura»[12].

Il significato «intellettuale» della storia, a questo punto, non può essere mai al di là della storia stessa che viene raccontata: è la stessa storia, in quanto esperienza e non astrazione. «Il romanziere […] dimostra qualcosa che non si può dimostrare in un altro modo se non con un romanzo intero»[13]: il significato non è mai astratto, ma vissuto.

«Il tipico problema dello scrittore di racconti è come far sì che l’azione descritta riveli quanto più possibile del mistero dell’esistenza»[14].

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6) L’occhio 

«Per lo scrittore di narrativa, tutto trova verifica nell’occhio, organo che, alla fin fine, implica l’intera personalità, e quanto più mondo riesca a contenere. Implica il giudizio. Il giudizio è una cosa che ha origine all’atto della visione, e quando non parte di lì, o ne è scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferirà al racconto»[15].

«Ho un amico che sta prendendo lezioni di recitazione, a New York da una signora russa che ha fama di essere un’ottima insegnante. Mi scriveva questo amico che per tutto il primo mese non hanno pronunciato neanche una battuta, ma solo imparato a guardare. Imparare a guardare, infatti, è la base per l’apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica. Molti dei narratori che conosco dipingono, non perché siano particolarmente dotati, ma perché dipingere li aiuta a scrivere. Li costringe ad osservare le cose»[16].

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7) La necessaria «visione» dello scrittore

«Il tipo di visione che lo scrittore di narrativa deve avere, o sviluppare, per accrescere il significato della propria storia è chiamata visione anagogica, cioè capace di vedere diversi livelli di realtà in un’immagine o in una situazione. I commentatori medioevali delle Scritture rinvenivano tre tipi di significato nel livello letterale del testo sacro: uno allegorico, dove un fatto alludeva ad un altro; uno antropologico, o morale, riguardante ciò che si doveva fare; e uno anagogico, che riguardava la vita divina e il nostro parteciparvi. Pur essendo un metodo applicato alla esegesi biblica, era altresì un atteggiamento verso tutto il creato, e un modo di leggere la natura che comprendeva quasi tutte le possibilità, ed è questa prospettiva ampliata della scena umana che, secondo me, lo scrittore di narrativa è tenuto a coltivare, se mai vorrà scrivere storie che abbiano una pur minima probabilità di entrare in pianta stabile nella nostra letteratura. Sembra un paradosso, ma più la prospettiva personale è ampia e complessa, più è facile da condensare nella narrazione»[17].

A giudizio della O’Connor lo scrittore deve far propri questi tre livelli di lettura del mondo e la conseguente «prospettiva ampliata della scena umana».

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8) I livelli di visione

«Il romanziere scrive di quel che vede in superficie, ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Comincia a vedere nelle profondità di sé, e mi pare che un avolta lì poggi su quello che senz’altro sta alla base di tutta l’esperienza umana: l’esperienza della limitatezza, o se preferite, della povertà»[18].

In questa tensione di approfondimento visivo si verifica che c’è un «granello di stupidità» necessario per uno scrittore:

«Lo starsene a fissare senza andare subito al dunque. Più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedrete dentro, ed è bene ricordare che lo scrittore di narrativa serio parla sempre del mondo intero, per limitato che sia il suo scenario»[19].

Lo scrittore non dovrebbe mai vergognarsi di fissare perché «non c’è nulla che non richieda la sua attenzione»[20].

In questo atteggiamento è presente un profondo senso dell’ascolto, del rispetto e dell’obbedienza nei confronti della realtà e del suo mistero.

«Non appena lo scrittore “impara a scrivere”, non appena sa cosa troverà, e scopre un modo di dire quanto ha sempre saputo, o, peggio ancora, un modo di non dir nulla, è finito. Se uno scrittore vale qualcosa, ciò che crea avrà la propria fonte in un reame assai più vasto di quello che la sua mente cosciente può abbracciare, e sarà sempre una sorpresa maggiore per lui di quanto non potrà mai esserlo per il suo lettore»[21].


[1]  F. O’CONNOR, Sola a presidiare la fortezza. Lettere, Torino, Einaudi, 2001,  38.
[2] Ivi, 41.
[3] Id., Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Roma-Napoli, Theoria, 1993, 60. Cfr ID., Sola a presidiare…, cit., 23.
[4] Ivi, 41.
[5]  Id., Nel territorio…, cit., 40.
[6] Ivi, 42.
[7] Ivi, 60.
[8] Cfr ivi, 61.
[9] Ivi, 54.
[10] Ivi, 122.
[11] Cfr ivi, 44.
[12] Ivi, 50.
[13] Ivi, 47.
[14] Ivi, 65.
[15] Ivi, 60.
[16] Ivi, 61.
[17] Ivi, 45.
[18] Ivi, 91.
[19] Ivi, 48.
[20] Ivi, 54.
[21] Ivi, 53.

4 thoughts on “Piccola antologia o’connoriana (brevemente commentata)

  1. Sarebbe possibile avere indicazione del test originale in Inglese da cui sono tratti i passaggi in merito a “occhio” e “visione dello scrittore”? Sono un insegnante di scuola superiore e mi potrebbe essere utile per il lavoro in classe.
    Ringrazio per l’attenzione
    Paolo Ferrario

  2. Io sono un fotografo.Sono esterefatto. Conoscevo il nome dell’autrice solo di fama. Stavo girovagando in cerca di un testo che mi serve stasera per un corso sul racconto in fotografia. Qui c’è tutto l’universo. Parla di tutto quello che vorrei che i miei ragazzi capissero, mi chiedono solo di sapere quale strumento usare. Stasera leggerò loro quest’intervista. Molti se ne andranno schifati, resteranno solo quelli folgorati come me.

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