di Matteo Nucci, apparso su il Messaggero, 11 settembre 2011
«Mostri queste cose e non avrà bisogno di dirle». Il consiglio di scrittura, in una lettera di oltre 50 anni fa, è di Flannery O’Connor. Oggi nessuna scuola di scrittura creativa farebbe a meno di ripeterlo. Mostrare, non dire: «Show. Don’t tell» per chiunque segua corsi e maestri è una legge scritta a caratteri indelebili che nessuno si sogna neppure di tradurre. Ma per lasciare che il consiglio porti i suoi frutti è ancora il caso di leggere con cura quel che ne scriveva una delle autrici più straordinarie della letteratura americana del Novecento. I suoi saggi, articoli, caustici suggerimenti e determinati tentativi di dissuasione sono finalmente usciti in traduzione integrale. La raccolta, originariamente intitolata «Mistery and Manners», era già stata in parte tradotta per un’edizione di minimum fax curata da Christian Raimo e intitolata «Nel territorio del diavolo. Il mistero di scrivere». I saggi che da quell’edizione erano stati omessi sono apparsi ora a cura di Antonio Spadaro: «Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere» (Rizzoli, 173 pagine, euro 9.50).
Nata a Savannah, in Georgia, nel 1925 e destinata a vita brevissima da una malattia ereditaria (il lupus), Flannery O’Connor non era solita sottrarsi a richieste di aiuto da parte di aspiranti scrittori. E così, se è vero che quanto di più importante va cercato nei due romanzi e nei meravigliosi racconti, tutto quel che scrisse per indicare una via d’approccio al mestiere non finisce di stupire. A partire da una premessa essenziale: il lavoro di scrittore non è semplice, non rappresenta una fuga dal mondo, costa fatica e salute («spesso cadono i capelli e i denti si guastano») e in molte occasioni sarebbe meglio farsi da parte. «Ovunque vada mi chiedono se, secondo me, le università soffocano gli scrittori. Il mio parere è che non ne soffocano abbastanza. Con un buon insegnante diversi best seller si sarebbero potuti prevenire» scrisse in una famosa conferenza. Ma a chi davvero abbia voglia di affrontare la fatica di scrivere, la O’Connor suggerisce innanzitutto di guardarsi dai corsi dove gli studenti criticano a vicenda i manoscritti («critica in genere composta in parti uguali da ignoranza, adulazione e ripicca») eppoi di fare attenzione ai maestri perché «se un cieco guida l’altro può essere pericoloso. Un insegnante che cerchi di imporvi un modo di scrivere può essere a sua volta pericoloso».
Superati i primi, decisivi ostacoli, il cammino si farà davvero duro. Perché una cosa è certa: i proclami, i grandi giudizi sull’esistenza, le facili tentazioni di dire tutto e subito così presenti nei primi tentativi di chi si cimenta con la scrittura andranno severamente banditi. Niente è più nefasto. «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa». La frase, ormai celebre al punto che entrambe le edizioni italiane la citano sul dorso, alza il velo sull’aspetto più caratteristico e complesso di questa scrittrice: il suo intransigente cattolicesimo. Un cattolicesimo fatto di dogmi e mistero, assolutamente refrattario a qualsiasi ingentilimento per conquistare anime alla causa. Tanto serio e rigoroso da permettere alla O’Connor di cercare il mistero della grazia nelle più recondite pieghe del male. Tanto distante dalla retorica del catechismo da risultare un carattere imprescindibile dei suoi scritti, ma al tempo stesso quasi ignorabile per chi voglia seguire l’autrice nelle sue «lezioni» per possibili futuri scrittori.
Nel definirsi scrittrice proprio in quanto cattolica e non sebbene cattolica, la O’Connor infatti mette davanti a chi voglia seguirla la più comune delle aspirazioni che qualsiasi scrittore presume di avere, a prescindere dalla sua fede: raccontare il mondo visibile per lasciare che attraverso di esso si mostri l’invisibile. Non è un caso che sia Conrad il termine di paragone citato dalla scrittrice: «Gli interessava rendere giustizia all’universo visibile perché ne suggeriva uno invisibile». Né è un caso che questo universo visibile debba essere colto attraverso i sensi.
Materia, polvere, persone in carne e ossa. Non emozioni, astrazioni, commenti. Mostrare il mondo e non dirlo. Ma per dargli vita. Per far sì che quel mondo che prende vita non sia mai completamente compiuto e il suo senso non si lasci mai catturare. «Un racconto è riuscito se dentro ci puoi sempre vedere qualcosa di più, se continua a sfuggirti di mano. Nella narrativa, due più due non fa sempre quattro». Allora forse si è sulla buona strada. Flannery O’Connor, quella strada, la percorse con una tale serietà che in quanto scrisse fino agli ultimi giorni di vita (anche nelle lettere, quel bellissimo epistolario di cui si aspetta sempre una traduzione completa) non si sente che una lontanissima eco del dolore fisico. Morì che non aveva ancora 40 anni completamente dedita al suo mestiere. È inutile immaginare quel che avrebbe ancora potuto scrivere. Quanto ha lasciato parla per lei. E nei racconti brevi resta insuperabile. Forse perché aveva visto subito il pericolo connaturato con il complesso genere della short story. Pericolo che non evitò di rivelare ai mille aspiranti scrittori. «Molti si mettono a scrivere racconti perché sono brevi, e brevi in tutti i sensi. Credono che un racconto consista in un’azione incompiuta nella quale poco viene rivelato e molto suggerito, convinti che suggerire significhi omettere. È difficilissimo distogliere uno studente da questa idea, perché s’immagina che omettendo qualcosa si dimostrerà sottile; e quando gli vai a dire che una cosa bisogna mettercela dentro, perché ci sia, quello penserà che sei un idiota privo di sensibilità».
Un libro che sento di dover leggere…
Grazie Antonio Spadaro.
Gent.mo prof Spadaro,
questo blog è stasta un’altra delle folgorazioni che mi hanno catapultato nel mondo della O’Connor con una veememza e continuità che non possono lasciare indenni.
Io sono il direttore del TEATRO DI SACCO di Perugia, una piccola compagnia teatrale professionale che vive ed opera in Umbria da più di tret’anni, dove cerco di portare e costruire progetti d’autore e di qualità, insomma un fare teatro che conduca i due contendenti, l’attore e lo spettatore ad un incontro da cui non si dovrebbe uscire indenni, poichè profondamnete umano, di carne e sangue e anime.
Dal mio primo incontro con l’autrice Il Geranio, è stato un susseguirsi di scoperte e visioni che hanno fortemente sollecitato il mio immaginario.
Citando …” Ma tale visione pugilistica va precisata e definita meglio per scoprire alla fine come questo “scazzottare l’angelo” (Socking the angel) non sia che il travaglio di un parto drammatico e folgorante, privo di ogni ninnolo consolante o fiocco agghindato. Da questa lotta nasce l’arte della O’Connor, che scrive in maniera netta, quasi perentoria: «Io, per arte, intendo scrivere qualcosa che in sé ha valore e funziona (works in itself)». Il testo funziona se è attiva questa lotta (che viene nominata in vari modi: wrestle, encounter, il verbo to sock proprio dello slang). Se un testo non “funziona” allora è estraneo all’arte. Si tratta allora di illustrare almeno alcuni dei livelli ai quali l’opera “lavora” e risulta efficace.
Il cielo è dei violenti è appunto il secondo romanzo della O’Connor; è la traduzione con cui in italiano è stato reso il titolo originale, “The violent bear it away”, pubblicato nel 1960 (ed edito in Italia da Einaudi per la prima volta nel 1965). Il riferimento è evangelico: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Matteo 11, 12-13). Che Flannery, scrittrice fieramente cattolica, abbia affidato a questo versetto la sintesi semantica della sua prosa non sorprende; qualunque lettore della O’Connor, novello o meno, dopo aver letto anche solo due righe di biografia, può capire la scelta dell’autrice. Ma da questo primo, elementare, livello di comprensione bisognerebbe elevarsi. Cercare una comprensione piena, alta e profonda, di ciò che un titolo come quello può significare.
Bisognerebbe riconoscere e accogliere la conquista del cielo da parte dei violenti come una verità e leggerla, oltre che nelle pagine del romanzo, nei fatti della vita e della Storia, (come fa la O’Connor narrando); ma così diventerebbe una questione di fede. Significherebbe credere, innanzitutto, nelle parole di Gesù riportate dall’evangelista Matteo: credere alla Parola di Dio.
Inoltre, la letteratura con la fede può non avere niente a che fare (come fa notare Marisa Caramella nell’introduzione, “la tematica dell’autrice, cattolica, credente, praticante e rigorosa, presenta difficoltà di comprensione, e anche, sovente, scarso interesse per il lettore laico), per cui la comprensione di un romanzo, di questo romanzo che ci racconta come il cielo sia dei violenti, dovrebbe passare per altre vie, praticate da tutti, anche da quelli che a Dio e al suo Verbo non credono.
Giusto: di fatto è quello che accade con le opere della O’Connor che toccano, stupiscono, sgomentano chiunque le legga: cristiani, cattolici, atei, agnostici, uomini e donne digiuni di cattolicesimo e, in genere, di confessioni religiose (“le capacità della scrittrice sono tali da incantarlo suo malgrado questo lettore agnostico e razionale”, rileva sempre Marisa Caramella). Sbagliato: perché la lettura cui ci chiama la O’Connor non si completa, non si compie, potremmo dire, se non in un atto di affidamento; è di per sé una questione di fede, senza la quale non c’è comprensione del racconto. È la lettura di una realtà che si accetta e si rivela solo nel Mistero. Riconosciuto e creduto.”
Ecco io da uomo, agnostico, non credente, non cattolico,pervaso dall’idea di una realtà che si accetta e si rivela solo nel Mistero, profondanete immerso nella cultura cattolica che è stata la mia fonte battesimale, ricercatore e teatrante di professione, voglio scazzotare con la parola e la furiosa visione, che ne viene evocata, della O’Connor e precisamente sto riducendo per la scena IL CIELO E’ DEI VIOLENTI, il cui titolo teatrale forse sarà “A scazzottare con l’angelo puoi perdere”
Da questa necessaria premessa nasce l’ipotesi di tradurre per la scena un così La storia narrata è quella di tre personaggi principali: un vecchio eremita, Tarwater, folle profeta fondamentalista fuggito nei boschi (dopo aver ricevuto una visione profetica) portando con sé un orfanello suo omonimo e pronipote; la sua missione era quella di allevare il ragazzo “a testimonianza della sua redenzione” insegnandoli “ad aspettare a sua volta la chiamata del Signore”. Un maestro, Ryber, nipote del vecchio, che si rifugia nel rigido autocontrollo della ragione; lui spera di liberare l’orfanello dal plagio della fede e rifiuta che il figlioletto Bishop, affetto dalla sindrome di down, venga battezzato, (come voleva fare il vecchio a tutti i costi) “per una questione di principio, per un fatto di dignità umana”. E, accanto a loro, il giovane Tarwater, dubbioso se scegliere l’una o l’altra via, ma spinto irresistibilmente verso l’eccesso della fede. Ryber accoglie in casa il giovane per aiutarlo, ma in realtà per dimostrare la sua superiorità al vecchio Tarwater che ha influenzato, oltre che la vita del pronipote anche la sua “sottraendolo ai genitori e indottrinandolo nella sua fede primitiva”. E mentre Ryber tenta di soffocare gli impulsi del giovane, questi si ribella,”trovando la sua libertà in seguito a una serie di azioni violentissime compiute e subite”.
Nel sangue di questi tre uomini si annida un seme che, per la O’Connor è indistruttibile. Un seme divino che di fronte alla presunzione umana di conoscere cosa sia la libertà, ne svela il mistero grande (è la stessa autrice che nella nota alla seconda edizione de La saggezza nel sangue scrive: “La libertà non si può concepire semplicemente. Essa è un mistero, e di quelli che a un romanzo, anche un romanzo comico, siamo tenuti soltanto a chiedere che lo intensifichi).
significativo romanzo e costruire una fitta drammaturgia, che ricalchi le potenti interconnessioni dei tre protagonisti in agone fra loro e con Dio. A questa potenza di allestimento ovviamente non saranno estranei elementi scenografici di altrettanto potente visione – la citazione di Bacon non è casuale – contribuendo alla costruzione di un progetto drammaturgico originale e assolutamente singolare, profondamente intriso delle questioni che i vari retaggi culturali e i vari dibattiti ideologico-morali spesso gesuiticamente contraddistinguono la scena politica e culturale italiana.
Uno spettacolo di una scrittrice profondamente osservante che credeva nella possibilità della salvezza dell’uomo e nella visione salvifica della fede: in questi tempi incerti la speranza e la fede mi sembrano parametri importanti con cui confrontarsi, specialmente nel mezzo di un cammino d’arte.
L’idea dello spettacolo, un inedito assoluto per l’Italia, viene ancor più rafforzata da una originale riduzione drammaturgica creata.
Tutto il progetto di messa in scena, infatti, è concepito come un atto unico della durata di 90 minuti per 3 attori.
Ovviamente l’interpretazione degli attori rifuggirà ogni tensione naturalistica o contemporanea, cercando insieme un sottotesto simbolico che assurga a valore assoluto, anche nella relazione, mai statuaria o verbosa, tra i vari ruoli in conflitto drammatico.
Infine l’allestimento scenografico sarà affidato ad una videoproiezione appositamente realizzata per lo spettacolo, che fungerà da autentico fondale, dove scenari di altrettanta visionarietà intercaleranno le dinamiche di azione, cambiamenti temporali e di luogo e le relazioni dialogiche degli attori, divenendo un ambiente vivente di immagini e pensieri, quasi un moltiplicarsi del difficile e arduo confronto col “Territorio del diavolo”, tanto per citare un titolo famoso di una raccolta i saggi di Flannery.
Mi piacerebbe entrare in contatto con lei per sottoporle l’idea, aprire uno scambio di opinioni e diffondere questa novità che vorrei contribuisse ad una maggiore conoscenza presso il pubblico italiano di questa straordinaria autrice.
Cordiali saluti
Roberto Biselli
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